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CHIMERICA, IL NUOVO FAR WEST DEL CAPITALE O LA FINE DELLA MONETA EGEMONE?

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L’estremo Occidente, estremizzandosi, arriva in Oriente, dicono i planisferi. La frontiera più remota del Far West capitalistico, perciò, veleggia a tappe forzate verso la Cina, avvicinandosi a realizzare la chimera di Chimerica, neologismo coniato da Niall Ferguson e Moritz Schularick, a significare l’inevitabile simbiosi fra Cina e America, che in notevole libro Geminello Alvi ha riassunto così: Il Capitalismo, verso l’ideale cinese.

Comprendere Chimerica, perciò, richiede sforzo di immaginazione e dimestichezza coi processi che regolano la storia. Non basta osservare la crescente dipendenza fra le esportazioni di merci cinesi in America cui corrisponde, speculare, la grande importazioni di capitale americano dalla Cina. Anche perché tale nesso, che ha retto le sorti dell’economia globalizzata nel primo decennio del XXI secolo è andato chiaramente in crisi.

I cinesi sono sempre più riluttanti a comprare i debiti americani, né possono farne a meno però, pena rischiare le loro preziose riserve. Gli americani invece vivono con imperiale noncuranza la gigantesca ipoteca accesa su di loro dai mandarini di Pechino, ma di sicuro ne parlano e ne discutono. E dopo tanta discussione deve esser apparsa loro una sola soluzione praticabile per riequilibrare i rapporti di forza senza finire col configgere con l’alleato-avversario: l’ingresso in grande stile della Cina nel mercato del capitale.

E il luogo di tale dibattito, non a caso, è diventata l’Europa.

La Banca centrale inglese, prima di Natale, ha prodotto uno studio proprio per studiare cause ed effetti dell’internazionalizzazione del renminbi, ovvero dell’apertura del conto capitale cinese. E a gennaio la stessa cosa ha fatto la Banca centrale europea. Tanta attenzione da parte dei banchieri centrali non è mai casuale.

La Cina, dal canto suo, allusiva e barocca com’è nel suo costume pubblico, ha fatto capire da alcuni anni di avere messo in conto tale evenienza futura, iniziando nel frattempo ad liberalizzare il conto corrente della sua bilancia dei pagamenti, e quindi a regolarizzare i trasferimenti di merci, per lo più con i suoi partner asiatici, in valuta nazionale. E di recente ha anche iniziato a denominare investimenti finanziari in renmimbi.

I flussi sono ancora tutto sommato ridotti. Circa il 10% delle transazioni estere è regolata in yuan, e sono cresciute anche le emissioni di obbligazioni denominate in renminbi (Dim Sum) a Hong Kong, ma anche in alcune piazze come Singapore, Londra e Taiwan. Si calcola che tali emissioni abbiano raggiunto quota 60 miliardi di dollari nel primo trimestre 2013. Qualche banca centrale ha pure iniziato a usare il renminbi come valuta di riserva, ma ancora con forti limitazioni provocate dalla circostanza della sua inconvertibilità.

Ma liberalizzare il conto capitale della BdP ha innanzitutto una rilevanza sistemica. Il Fmi calcola che una liberalizzazione dei movimenti di capitale condurrebbe a un aumento degli attivi cinesi esteri nell’ordine del 15-25% del Pil cinese e di attivi esteri in Cina fra il 2 e il 10% del Pil. Ciò condurrebbe a un travaso delle risorse di investimento dall’interno all’esterno, che finirebbe col diminuire il contributo degli investimenti cinesi sul Pil, che poi è uno dei problemi di cui soffre l’economia asiatica, schiacciata da una quota di investimenti sul Pil vicina al 50% che soffoca lo spazio economico per i consumi privati.

Le politiche bancarie seguite dalla Cina, infatti, drenano, tramite lo strumento dei tassi amministrati, risorse dal risparmio privato nell’ordine del 4% del Pil cinese, e quindi realizzano un sostanziale trasferimento di ricchezza a favore delle imprese che finisce col deprimere i consumi alimentando il boom degli investimenti.

Senonché il vecchio modello cinese sembra ormai inceppato. E lo mostra, ancora prima del rallentamento della crescita, ormai costante, l’andamento del conto corrente della BdP, crollato al 2%. La quota dell’export sul Pil non ha più raggiunto il livello ante 2008, e solo gli investimenti, pure al costo di un crescente indebitamento pubblico occulto, celato da veicoli sponsorizzati dalle amministrazioni locali, sono riusciti a contenere la frana del Pil.

Perciò i cinesi devono cambiare strada. Devono volgere lo sguardo a Occidente. Il grande creditore, che vive il paradosso di un saldo corrente negativo sul lato dei redditi della bilancia dei pagamenti, malgrado sia il primo creditore al mondo, dovrà (o almeno così gli suggeriscono di fare) entrare nel grande gioco del capitalismo globale mettendo sul tappeto la sua moneta, e, di conseguenza, i suoi 3.700 miliardi di riserve frutto dei suoi commerci con l’estremo Occidente.

Chimerica perciò si fonda su due presupposti: da una parte sulla necessità che la Cina individui un nuovo modello di sviluppo, più basato sul consumo privato, e dall’altra dall’esigenza americana di mantenere la supremazia dei mercati finanziari dollarocentrici. Il denominatore comune è un aumento, per via finanziaria, dell’internazionalizzazione. I cinesi devono ancora assaporare il gusto omologante dei beni durevoli.

Aggiungere un posto a tavola al gigante cinese, da questo punto di vista, è di sicuro la soluzione di contenimento dell’emergente egemonia cinese più pacifica.

Dal canto suo, però, la Cina è ben consapevole dei rischi che ciò comporta per la sua sovranità. Finché regge la Grande Muraglia dei controlli di capitale, e quindi è molto difficile fare investimenti di portafoglio da e per la Cina, e finché il tasso d’interesse cinese viene fissato per decreto, così come il cambio, è molto più semplice gestire la stabilità finanziaria. C’è da dubitare che sia così, che vale a dire la Cina non finisca per subire le amorevoli cure della market discipline, una volta che i cinesi accetteranno le regole del Grande Gioco. Una crisi bancaria o valutaria, ricorda la Bce, è molto facile che si verifichi quando un paese si apre allo splendido mondo del capitale libero. E se la moneta cinese diverrà una merce come tutte le altre, perché questo in fondo significa liberalizzare il conto capitale, chi la salverà dai marosi della sfiducia in caso di crisi? Le riserve, come ogni cosa, prima o poi finiscono.

In questo scenario di contenimento dei cinesi per via finanziaria, camuffata dai grandi vantaggi che l’internazionalizzazione del conto capitale cinese porterebbe per tutti (pù crescita, più stabilità, meno asimmetrie), l’Europa si trova letteralmente in mezzo. Per noi della Terra di mezzo Chimerica può essere la tenaglia che, come ha scritto efficacemente Alvi, “porterà la polizia cinese in Europa”. Oppure, come dicono i banchieri centrali inglesi e tedeschi una straordinaria opportunità per lo nostre piazze finanziarie. Ma è chiaro che a noi toccheranno gli avanzi, semmai. Le portate principali saranno servite a Wall Street.

C’è un altro scenario, però, che sottotraccia, potrebbe evolversi in un periodo relativamente breve. Dipende molto dalla fine che farà il progetto di Unione europea e dall’evoluzione dei rapporto di quest’ultima con l’altra Unione, quella euroasiatica, che nelle intenzioni di Putin dovrebbe arrivare una gigantesca area di scambio dall’estremo occidente europeo all’estremo oriente russo.

L’Unione europea persegue a suo modo un progetto egemonico, costruito per intanto sulle spalle dei propri stati nazionali, che fa della moneta – quindi di tutto ciò che la moneta porta con sé – lo strumento dell’egemonia.

In tal senso il processo di Unione Bancaria, che rappresenta il perfetto completamento dell’Unione monetaria, l’evoluzione 2.0 dell’euro, è la punta avanzata di tale modalità di egemonia.

Al contrario degli Stati Uniti, che hanno fondato la loro supremazia economia sulla moneta egemone – il dollaro come principale strumento di scambio e di riserva – potendo godere nel tempo di questo “esorbitante privilegio” già denunciato da De Gaulle che consente loro di continuare ad indebitarsi e avere al contempo un saldo attivo dei redditi sulla Bpd (al contrario dei cinesi), l’Europa sta tentando di creare una nuova e diversa forma di egemonia monetaria – basata quindi su una valuta a-statale come l’euro – che sottintende il sostanziale spostamento della sovranità dalla geografia degli stati a quella internazionalistica dei banchieri-regolatori.

Se tale progetto andrà in porto dipenderà da due fattori: uno interno all’Europa stessa, ossia dalla capacità della Germania di far digerire ai suoi partner, a cominciare dalla Francia, la sua propensione ad essere la capofila di questa integrazione, e poi dalla sua capacità di delegare a sua volta alle entità sovranazionali dell’Ue parti consistenti della propria sovranità. L’altro esterno all’Ue. Ossia alla capacità dell’Europa di dialogare con l’universo post-sovietico. L’asse russo-tedesco, che nella storia è stato sempre visto come un pericolo assolutamente da evitare per gli americani, potrebbe insomma replicarsi nel più moderno asse fra le due Unioni, europea e euroasiatica, trovandoci ognuno reciproci ed evidenti vantaggi.

Tale insidia, che gli americani di sicuro hanno percepito, si dimostra esser tale anche per una semplice circostanza: l’eurozona, così come la Cina e anche la Russia, è nel suo complesso creditrice netta. E nella storia sono sempre stati i creditori a dettare le regole del gioco, mai i debitori. Ma è vero altresì che non era mai successo prima di avere a che fare con un creditore bene armato come quello americano.

In tal senso l’internazionalizzazione del renminbi potrebbe essere un punto di svolta. L’asse euro-asiatica (nel senso di euro) potrebbe trovare nel capitale cinese “liberalizzato” la massa critica necessaria a neutralizzare definitivamente la moneta egemone, ossia il dollaro.

Detto in altri termini, potrebbe innescare la sostanziale riforma del sistema monetario internazionale che già nel 2009, in un celebre discorso, veniva auspicata dal governatore della banca centrale cinese.

In questo caso ne vedremo delle belle.

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