Recentemente il celebre settimanale britannico “The Economist” ha dedicato la propria copertina a Blackrock, il principale e più facoltoso degli hedge fund.
Amministrando un patrimonio quantificabile complessivamente in oltre 4.000 miliardi, offrendo software per la gestione di altri 11.000 miliardi di dollari e occupandosi di obbligazioni, azioni commodity e immobili, Blackrock è divenuta la più grande società di investimento del mondo, esercitando un controllo diretto, grazie all’abilità dell’influente direttore Laurence Fink, sull’intero spettro della speculazione finanziaria – che si divide tra gli enti che vendono (banche) i prodotti finanziari e quelli che li comprano (clienti privati, fondi pensione, fondazioni, hedge fund, divisioni finanziarie delle imprese multinazionali, ecc.). Dal momento che tale compagnia si è posta nelle condizioni di svolgere tanto i compiti di consulenza per quanto riguarda le valutazioni e le scelte dei migliori investimenti, quanto quelli riguardanti l’intermediazione e la gestione di interi pacchetti di titoli, compresi quelli maggiormente a rischio (e pertanto anche maggiormente remunerativi), Blackrock ha potuto accumulare un potere finanziario immenso. La notevole capacità di operare sugli stock market ha infatti permesso a tale società di acquisire pacchetti azionari (o di controllo) di Adidas, Allianz, Badische Anilin und Soda Fabrik (BASF), Deutsche Bank, Merck e HeidelbergCement, General Electric, Nestlé, Toyota, Novartis, Apple, Google, Microsoft, JP Morgan Chase, Wells Fargo, ExxonMobil, Chevron, Shell, ecc. Blacrock si trova particolarmente a proprio agio nell’investire attraverso gli Exchange Traded Fund (ETF), ovvero delle specifiche forme d’investimento “passive” che vengono negoziate in Borsa alla stessa stregua delle azioni e mirano unicamente a riprodurre l’indice al quale fanno riferimento (benchmark), fornendo al tempo stesso una ridotta esposizione al rischio e un buon livello di trasparenza.
Il potere di Blackrock è stato ampiamente dimostrato in Italia, dove tale società ha ridotto drasticamente la propria esposizione nei confronti di Unicredit, affossando tale banca mentre era in atto l’aumento di capitale di inizio 2012, ed ha venduto un pacchetto azionario del 2,3% di Saipem pochi istanti prima che la società crollasse in Borsa, perdendo il 35% circa del valore in un solo giorno. Detenendo quote molto considerevoli delle due maggiori agenzie di rating (Moody’s e Standard & Poor’s), il gruppo Blackrock ha inoltre potuto disporre della facoltà di influenzare pesantemente il mercato obbligazionario in chiave geostrategica, intaccando arbitrariamente la solidità di aziende e Stati attraverso l’emissione di giudizi falsi e/o tendenziosi dettati dalle esigenze della più pura tempra politica
Il soverchiante peso finanziario assunto da Blackrock ha conferito a tale organo anche un notevolissimo peso politico, testimoniato dal fatto che nel marzo 2008 questa azienda sia stata incaricata dalla Federal Reserve di New York guidata da Timothy Geithner di stimare l’esposizione della Bear Stearns – poi acquisita da JP Morgan Chase – nei confronti dei derivati basati sui mutui subprime e di gestire la montagna di Credit Default Swap (CDS) che avevano mandato sull’orlo della bancarotta il gigante assicurativo AIG. Come se non bastasse, «La Blackrock – ha osservato l’analista tedesco Heike Buchner – ha assistito la Federal Reserve nelle sue transazioni miliardarie con i titoli legati ai mutui ipotecari e le ha offerto una consulenza per l’ingresso nel capitale della banca Citigroup. I suoi esperti sono stati assoldati anche per esaminare i conti dei colossi ipotecari para-pubblici Fannie Mac e Freddie Mac. L’azienda inoltre ha ottenuto molti contratti di consulenza con lo Stato senza che fosse indetta una gara pubblica» (1).
La caratteristica di gestire unicamente i capitali affidati dai singoli investitori per mezzo dei fondi pensione o di altri fondi comuni senza impegnare nulla di proprio conferisce a Blackrock e ad altri hedge fund un livello di affidabilità ben maggiore rispetto a tutte le grandi banche di Wall Street, che in seguito alla rimozione del Glass-Steagall Act grazie all’approvazione del Financial Modernization Act (o Gramm-Leach-Bliley Act) poterono tornare ad operare senza alcuna restrizione. Il Financial Modernization Act costituisce la legge che eliminò le normative atte a disciplinare l’attività degli istituti bancari di Wall Street soppiantando il Glass-Steagall Act, la legge fondamentale del New Deal rooseveltiano risalente al 1933 che sanciva la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento allo scopo di proteggere l’economia reale dalle pericolosissime attività finanziarie. Con la ratifica del Senato statunitense e l’approvazione del presidente Bill Clinton, il Financial Modernization Act entrò definitivamente in vigore, consentendo a investitori istituzionali, fondi pensioni, compagnie assicurative, banche commerciali e banche d’investimento di integrare liberamente i propri compiti e le proprie funzioni. Secondo le ricerche compiute dal noto giornalista investigativo Greg Palast, nel 1997 personaggi saldamente inseriti nell’establishment finanziario statunitense quali l’allora segretario al Tesoro Robert Rubin, l’allora vicesegretario al Tesoro Larry Summers, il dirigente del medesimo Dipartimento Timothy Geithner, John Corzine (Goldman Sachs), David Kamanski (Merrill Lynch), John Reed (Citibank), Walter Shipley (Chase Manhattan Bank) ed importanti uomini di punta dei più aggressivi hedge fund, raggiunsero un accordo segreto in base al quale tali componenti dell’oligopolio affaristico USA si impegnarono a concentrare tutte le proprie forze allo scopo di scardinare i regolamenti che disciplinavano le attività finanziare, a cominciare proprio dal Glass-Steagall Act e dalle norme atte a contenere i fondi speculativi.
Con la crisi del 2008 la Casa Bianca e il Congresso presero però atto della necessità di trasmettere all’opinione pubblica la volontà di punire Wall Street per i suoi “eccessi”. Così, nel 2010 venne solennemente varato il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, che avrebbe dovuto ricalcare i principi del Glass-Steagall Act del 1933. Sebbene in base a questa legge, caldeggiata dall’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, le banche non avrebbero più potuto utilizzare i fondi depositati dai propri clienti per negoziare affari in conto proprio, Goldman Sachs ha riunito singoli enti privati ed altri potenti colossi finanziari per continuare ad operare esattamente come prima attraverso il Multi-Strategy Investing (MSI, una sorta di hedge fund di cui sono entrati a far parte alcuni dei più aggressivi speculatori di Wall Street), aggirando agevolmente i vincoli del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Anche l’accordo noto come “Basilea III”, che si proponeva ufficialmente di ridurre sensibilmente l’effetto leva e, soprattutto, di irrigidire complessivamente le regole per quanto riguarda l’operato degli hedge fund, è sostanzialmente naufragato.
Oltre che da questo genere di vicissitudini, la vicinanza della classe politica al potere finanziario è peraltro testimoniata dal fatto che, dalla primavera del 2011, gli hedge fund sono tornati ad amministrare un patrimonio superiore a quello che gestivano durante il periodo immediatamente precedente alla crisi. Nessuno degli organi istituzionali incaricati di monitorare e disciplinare le attività finanziarie ha inoltre impedito al Marathon Asset Management, hedge fund che gestisce “appena” 11 miliardi di dollari, di “acquisire” la cittadina californiana di Scotia, finita in bancarotta municipale alcuni mesi prima, fornendo in tal modo un precedente assai insidioso che fondi ben più potenti potrebbero sfruttare per alzare il tiro su obiettivi maggiormente appetibili come Detroit, metropoli spopolata e dissestata messa letteralmente all’asta dal curatore fallimentare. Di questo passo, intere città potrebbero finire sotto il controllo diretto degli hedge fund.
A ben guardare, è difficile negare che la decantata “crescita” statunitense rifletta l’avanzata inarrestabile di questi attori e l’automatica dilatazione degli squilibri di fondo legata inestricabilmente al loro operato; squilibri che favoriranno il ripetersi di una nuova crisi. Il sabotaggio di tutti i programmi volti a regolamentare e disciplinare le attività finanziarie ha tutelato gli interessi delle grandi banche e degli hedge fund, consentendo loro di assurgere al ruolo di “motori” della “ripresa” USA. L’azzeramento dei tassi di interesse e il quantitative easing della Federal Reserve hanno invece blindato la solvibilità delle banche e fornito loro un fiume di liquidità a ciclo continuo che è confluito verso Wall Street (l’indice Dow Jones ha bruciato un record dopo l’altro; l’indice Standard & Poor’s è cresciuto del 30% nell’arco del 2013) e verso il mercato cartaceo delle commodity, inondato di short “nudi” allo scopo di far crollare il prezzo dell’oro e attirare gli investitori verso il dollaro (nel pieno di una fase in cui i BRICS ed altri Paesi stanno accumulando ingenti riserve auree ed abbandonando progressivamente la valuta statunitense), così da mantenere alto il prezzo dei Treasury Bond e bassa la loro redditività. L’aumento delle disparità sociali, il consolidamento del potere di Wall Street, l’incremento della capacità di influire sull’economia reale da parte degli hedge fund e il gonfiamento delle tre “bolle” azionaria, obbligazionaria e del dollaro sono il risultato delle ricette applicate dalla classe dirigente statunitense; ricette che una parte preponderante degli economisti ortodossi e degli organi di stampa occidentali addita instancabilmente come esempi da seguire nonostante contengano tutti gli ingredienti in grado di favorire il delinearsi di scenari ben peggiori di quello attuale.
È praticamente scontato che le linee operative in vigore finora non siano destinate a cambiare nemmeno in seguito all’avvicendamento che ha interessato il “ponte di comando” della Federal Reserve (di cui è stato recentemente celebrato il centenario), dal momento che l’incarico che per nove anni ha ricoperto Ben Bernanke, profondo conoscitore della “grande depressione” nominato da George W. Bush e confermato da Barack Obama, è stato ereditato da Janet Yellen (che l’ha “soffiato” a Larry Summers), economista che di Bernanke condivide l’impostazione “keynesiana” e approccio conciliante verso i colossi finanziari di Wall Street. Nonostante il “cambio di guardia” alla direzione della FED e le ricorrenti promesse di tapering, cioè di limitazione progressiva degli acquisti di Treasury Bond, sarà infatti praticamente impossibile provvedere a una sospensione definitiva del quantitative easing in tempi ragionevolmente, malgrado l’ostruzionismo alle prospettive di espansione monetaria opposto dagli “mercatisti” più intransigenti del “Wall Street Journal” e dai principali esponenti del Tea Party, contrari all’indebitamento federale.
L’innalzamento dei tassi di interesse provocherebbe infatti la caduta del prezzo dei bond e l’esplosione della loro redditività, minando la solvibilità delle banche e inaugurando pertanto una lunga fase recessiva destinata a trasformarsi in depressione una volta innescato il processo (inevitabile, a quel punto) di dismissione generalizzata dei Treasury Bond, che produrrebbe una forte svalutazione del dollaro indebolendo pericolosamente il ruolo internazionale della moneta statunitense. Per un Paese come gli USA, che importano quasi tutto ciò di cui necessitano (come testimoniato dallo stato allucinante della rispettiva bilancia commerciale), un evento simile causerebbe un brusco aumento dell’inflazione che, combinandosi alla recessione/depressione vigente, darebbe vita al fenomeno della “iper-stagflazione”.
Per questa ragione, oltre ad annunciare solennemente che il mercato immobiliare è ormai sulla strada della ripresa e che a breve le aziende provvederanno ad effettuare investimenti volti a creare nuovi posti di lavoro, la Yellen – incoraggiata dal suo vice Stanley Fischer, ex vicepresidente di Citigroup nonché ex vertice della Banca d’Israele (presso la quale ha proceduto a un notevole taglio dei tassi di interesse nel tentativo di arginare la crisi che colpiva l’economia dello Stato ebraico) che ha contribuito alla formazione di personaggi di grande potere come Larry Summers, Ben Bernanke, Mario Draghi, Greg Mankiw e Kenneth Rogoff – ha immediatamente tessuto le lodi dell’operato di Bernanke e annunciato che sotto il suo controllo la Federal Reserve si collocherà nel solco tracciato dal suo predecessore, limitandosi a promettere una riduzione di 10 miliardi di dollari al mese di acquisti obbligazionari alla luce dei “confortanti” miglioramenti capitalizzati dall’economia nazionale.
È interessante notare il non incoraggiante fatto che la Yellen, malgrado la sua incrollabile fede “keynesiana” imperniata su un principio ideologico che assegna al governo e alla politica in generale il compito di correggere e bilanciare gli squilibri intrinseci del mercato, rimase letteralmente inerte nel 2004, quando, alla guida della Federal Reserve di San Francisco, si trincerò in un assurdo immobilismo mentre nella “sua” California andava gonfiandosi la maggiore bolla immobiliare di tutti gli Stati Uniti, alimentata dall’atteggiamento spregiudicato e aggressivo di istituti come Countrywide Financial (finito poi sul lastrico con lo scoppio della bolla). «Non ho scorto né compreso i rischi connessi alla montagna di cartolarizzazioni, all’operato delle agenzie di rating e del sistema bancario “ombra”… Non mi sono resa conto di nulla finché il disastro non si è palesato» (2), disse la Yellen dinnanzi alla Financial Crisis Inquiry Commission riunitasi nel 2010 per analizzare e valutare il ruolo svolto dai vari istituti nello scoppio e nella gestione della crisi. Per la verità, ciascuno dei recenti “timonieri” (con l’eccezione come Paul Volcker) della Federal Reserve ha in curriculum “prodigi” di questo genere: Alan Greenspan, a capo della FED dal 1987 al 2006, ha promosso una linea monetaria che ha agevolato in tutto e per tutto la crescita spaventosa della bolla immobiliare e di quella relativa alla New Economy, mentre Ben Bernanke ha mantenuto interessi bassissimi per mesi e mesi allo scopo di salvare Wall Street e assecondare (ancora una volta dopo i primi anni del nuovo millennio) le volontà dei grandi istituti finanziari che traggono i utili operando sul mercato immobiliare – i quali richiedevano che venissero agevolati i programmi di estensione del credito nei confronti dei clienti subprime.
NOTE
1) “Die Zeit”, 6 maggio 2011.
2) “The New York Times” 13 agosto 2013.