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IL CAUCASO DOPO LE ELEZIONI GEORGIANE E LA SVOLTA EURASISTA ARMENA

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Le elezioni presidenziali georgiane del 27 ottobre 2013 si sono concluse con una larga vittoria di Giorgi Margvelašvili, che con quasi il 63% dei voti ha sconfitto David Bakradze, vicino all’ex Presidente Mikheil Saakašvili, fermo al 22%[1]. Si tratta di un fatto storico, per quanto preannunciato, in quanto chiude definitivamente l’epoca della cosiddetta “Rivoluzione delle Rose”, che nel 2003 depose Eduard Ševardnadze, già Ministro degli Esteri di Gorbačëv, portando alla presidenza il filoccidentale Saakašvili. Quella georgiana appena conclusasi è l’ultima di una serie di tornate elettorali che hanno coinvolto le tre Repubbliche caucasiche ma che, a differenza che in Georgia, hanno visto la riconferma dei vecchi leader. In Armenia, il 18 febbraio 2013, è stato rieletto il presidente uscente Serž Sargsyan e, pochi mesi dopo, la rielezione di Ilham Aliev alla presidenza dell’Azerbaigian è avvenuta senza troppe sorprese. Almeno all’apparenza, quindi, nulla di nuovo sotto il sole, tranne che in Georgia.

Parafrasando Il Gattopardo, però, si può dire che “non cambia niente perché cambi tutto”. Dietro una parvenza di immobilità, infatti, negli ultimi mesi la Transcaucasia ha vissuto eventi che, nei prossimi anni, potrebbero mutarne il profilo geopolitico in modo radicale. Uno è il cambio della guardia in Georgia; l’altro è la recente decisione del presidente armeno Sargsyan di aderire all’Unione Doganale Eurasiatica, rinunciando quindi alla prospettiva di sottoscrivere quell’Accordo di Associazione con l’Unione Europea per cui sembrava ormai essere pronta. La svolta, annunciata il 3 settembre 2013, ha sorpreso non poco gli osservatori europei[2], ma è stata accolta con favore dagli Stati del trio eurasiatico (Russia, Kazakistan e Bielorussia), e l’accordo di adesione verrà stipulato probabilmente già nel maggio dell’anno venturo[3].

La futura adesione di Erevan all’Unione Doganale non è importante tanto dal punto di vista economico (le ricchezze dell’Armenia sono modeste, la sua popolazione esigua e i vantaggi per Bielorussia e Kazakistan del tutto risibili), quanto sotto quello geostrategico. La Russia mantiene buoni rapporti sia con l’Armenia sia con l’Azerbaigian, ma i suoi legami con la prima, grazie anche ai vincoli religioso e civilizzazionale[4], sono di gran lunga più solidi di quelli con il secondo. L’Armenia di fatto considera il Cremlino come una sorta di “grande fratello”, mentre l’Azerbaigian, pur non essendo russofobo, tende a voler mantenere una certa distanza con il vicino russo (notevole è in questo il rifiuto di Baku di entrare nella CISFTA, l’area di libero scambio dei Paesi della CSI[5]). Sulla questione del Nagorno-Karabach[6], poi, la Russia, all’apparenza neutrale, di fatto sostiene Erevan, come dimostrato dalla vendita di massicce quantità di armamenti all’Armenia nel 2008[7] (cosa che, ovviamente, non ha mancato di suscitare qualche mugugno a Baku). Mosca e Erevan, dopotutto, oltre ad una certa affinità culturale, hanno anche interessi strategici convergenti, mentre nei confronti di Baku non si può dire lo stesso: basti pensare alla costruzione degli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) e Baku-Supsa, entrambi finalizzati al trasporto del petrolio azero verso i mercati europei bypassando la Russia (oltre naturalmente all’Armenia).

In Occidente alcuni, come l’eurodeputato britannico Charles Tannock, hanno affermato che la svolta filorussa dell’Armenia è la conseguenza delle “tattiche di bullismo” adottate dalla Russia nei confronti dei suoi vicini[8]. Ma si tratta di una spiegazione parziale, oltre che partigiana. L’Europa, per quanto allettante, è comunque lontana, anche perché, vista l’assenza di confini diretti con l’UE, l’Armenia dovrebbe attendere l’ingresso della vicina Georgia. La quale, a sua volta, prima di poter proseguire con l’integrazione nell’UE e nella NATO dovrebbe risolvere le dispute in Ossezia del Sud e Abchazia. L’Unione Europea, inoltre, ha assunto una posizione ambigua sulla questione del Nagorno-Karabach: da un lato sostiene il diritto all’autodeterminazione degli Armeni della regione, dall’altro riafferma quello all’integrità territoriale dell’Azerbaigian. Un’ambiguità, questa, dettata dal conflitto tra le ragioni ideali dell’autodeterminazione dei popoli di stampo wilsoniano e quelle economico-strategiche che invece suggeriscono di non compromettere i buoni rapporti con l’Azerbaigian per una questione che per Baku ha un forte risvolto emotivo. Ben diverso è invece il discorso per la Russia, che anche grazie alla base militare di Gyumri è oggi il maggior garante della sicurezza dell’Armenia[9]. Ciò ha indubbiamente contribuito in modo significativo a favorirne la svolta eurasiatica, e se è vero che il Cremlino è molto attento nel mantenere buone relazioni con l’Azerbaigian, è anche vero che la maggiore inclinazione di Mosca verso Erevan è dovuta anche a ragioni culturali e religiose. Certamente i rapporti russo-armeni non sono stati privi di divergenze, ma è alquanto difficile che Mosca abbandoni Erevan per schierarsi apertamente dalla parte di Baku: la Russia, dopotutto, non potrà mai sostituirsi alla Turchia nella relazione speciale che quest’ultima ha con l’Azerbaigian.

Tuttavia, per quanto l’interesse di Erevan nei confronti dell’Unione Doganale rappresenti un importante successo geostrategico per quest’ultima (anche dal punto di vista simbolico, visto che si tratta pur sempre di un Paese che volta le spalle all’Europa preferendole l’Eurasia), va anche detto che ciò renderà ancora più lontana la soluzione del conflitto del Nagorno-Karabach. La possibilità che la tregua sancita dall’accordo di Biškek del 1994 si trasformi in una pace duratura è sempre stata remota. I due Paesi, ufficialmente ancora in guerra, rimangono sostanzialmente ancorati alle loro posizioni (l’Azerbaigian giudica inalienabile il diritto alla propria integrità territoriale, mentre per l’Armenia vale lo stesso discorso nei riguardi dei diritti degli Armeni della regione), e il Gruppo di Minsk, un comitato nato in seno all’OSCE per la risoluzione del conflitto, non solo non ha ottenuto alcun successo significativo, ma è stato anche accusato dall’Azerbaigian di essere eccessivamente filoarmeno[10].  L’unico Paese che aveva una qualche possibilità di promuovere una soluzione condivisa, in virtù dei buoni rapporti e della vicinanza ad entrambi, era la Russia. Tuttavia, se l’ingresso dell’Armenia nell’Unione Doganale è una cattiva notizia sul fronte della soluzione del conflitto nel Nagorno-Karabach (e probabilmente causerà un peggioramento dei rapporti del Cremlino con Baku e con Ankara), non lo stesso si può dire sul fronte della soluzione dell’altra grande disputa caucasica, quella russo-georgiana su Ossezia del Sud e Abchazia. La via più breve tra l’Armenia e l’Unione Doganale, infatti, passa attraverso la Georgia, ma i confini russo-georgiani sono attualmente chiusi a causa della guerra. Negli ultimi mesi, tuttavia, sono state diverse le schiarite sul fronte dei rapporti russo-georgiani, e le prospettive di una normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi non sono più così remote. Si tratta di segnali che l’Armenia non può non aver colto, e che sicuramente hanno avuto un ruolo importante nel favorire la svolta eurasiatica di Sargsyan.

I rapporti tra Russia e Georgia rimangono tesi, come dimostrato dal mancato invito della Russia alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Margvelašvili[11], ma i motivi per essere ottimisti non mancano. Se la guerra del 2008 ha segnato il punto più basso delle relazioni russo-georgiane, l’elezione del filorusso Ivanišvili alla Presidenza del Consiglio, avvenuta nel 2012, è stata seguita da alcuni importanti segnali di distensione. Il 4 agosto 2013, a pochi giorni dal quinto anniversario dell’attacco delle forze georgiane all’Ossezia del Sud che funse da casus belli per l’intervento militare russo a sostegno dei separatisti, il portavoce del governo di Tbilisi per la normalizzazione dei rapporti con la Russia Zurab Abašidze, pur ribadendo che la Georgia è stata vittima di un’aggressione, ha riconosciuto che “anche dalla nostra parte sono stati commessi dei passi falsi”[12]. Poche settimane dopo, in un’intervista, il premier Ivanišvili ha persino aperto alla possibilità di un’adesione del suo Paese all’Unione Doganale “se questa si dovesse rivelare un’opzione conveniente”[13]. Ivanišvili ha poi criticato la politica di Saakašvili, rimarcando che “la Georgia è un Paese piccolo e quindi non può avere ambizioni da potenza regionale”, e sottolineato i recenti sviluppi positivi nelle relazioni con il Cremlino, come il ritorno del vino e dell’acqua minerale georgiani (tra cui la popolare Borjomi) sui mercati russi, auspicando infine una soluzione della crisi in Ossezia del Sud e Abchazia[14]. E la normalizzazione dei rapporti con la Russia, pur senza rinunciare alla prospettiva europea, è una delle maggiori priorità di Margvelašvili, che in una recente intervista all’emittente televisiva russa Pervyj Kanal ha annunciato una sua possibile visita in Russia in occasione delle ormai imminenti Olimpiadi Invernali di Soči[15]. Si tratta di segnali che, ovviamente, hanno incontrato il plauso della Russia.

E’però possibile un ritorno della Georgia nell’orbita russo-eurasiatica? Se è vero che le relazioni russo-georgiane hanno toccato il loro punto più basso durante l’epoca Saakašvili, va anche detto che tra la Russia e la Georgia non sono mai mancati i motivi di tensione. A livello culturale i due Paesi sono tutt’altro che privi di punti in comune e di motivi di convergenza. Entrambi, infatti, sono Paesi ortodossi, la convivenza tra Russi e Georgiani è sempre stata molto buona, e nella maggior parte dei matrimoni misti tra Georgiani e non-Georgiani, senza particolari differenze tra maschi e femmine, uno dei due sposi è russo[16]. La dominazione russa in Georgia non è iniziata tramite conquista, ma con la richiesta ai Russi di protezione contro l’Impero Ottomano da parte di re Giorgio XII nel 1801[17], e durante l’epoca sovietica non mancarono i Georgiani che fecero carriera negli organi centrali del Partito Comunista, talora scrivendo alcuni capitoli importanti della sua storia (basti pensare al precedentemente menzionato Eduard Ševardnadze, uno dei massimi protagonisti della fine della Guerra Fredda, oltre ovviamente a Stalin). Le premesse per instaurare buoni rapporti, quindi, ci sono tutte.

A favorire l’insorgere di tensioni, però, è stata la geopolitica. La Georgia è un Paese piuttosto povero, privo di grandi risorse naturali se si esclude l’agricoltura, ma il suo petrolio è la sua posizione geografica tra l’Azerbaigian, e quindi i giacimenti di idrocarburi del Mar Caspio (e da lì, in prospettiva, l’Asia Centrale e persino la Cina) e la Turchia e quindi l’Europa. Viste l’assenza di confini diretti tra Azerbaigian e Turchia e le tensioni di ambo i Paesi con l’Armenia, tutto il traffico tra questi due Paesi deve essere obbligatoriamente dirottato attraverso Tbilisi se si vuole bypassare l’Iran. Oltre ai già menzionati oleodotti BTC e Baku-Supsa, dal Paese transita anche il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum, prima sezione di quello che avrebbe dovuto essere il Nabucco (in seguito disdetto e sostituito dal più modesto TAP), mentre è in progetto l’interconnettore Azerbaigian-Georgia-Romania (AGRI), per mezzo del quale il metano viene trasportato allo stato gassoso fino in Georgia, dove viene liquefatto e trasportato su gassiere fino a Costanza, in Romania, per poi essere nuovamente rigassificato[18]. Si tratta di importanti fonti di introiti per la Georgia: basti pensare che i diritti di transito per il solo BTC ammontano a più di 60 milioni di dollari annui[19]. Attraverso il Paese caucasico passano anche le direttrici di trasporto stradale e ferroviario previste dal programma TRACECA, che consentiranno di collegare l’Europa con la Cina e il Centrasia evitando Russia e Iran, mentre meno interessante, almeno al momento, è la prospettiva di diventare un ponte tra la Russia e la Turchia o (attraverso l’Armenia o l’Azerbaigian) tra la Russia e l’Iran e l’Asia Meridionale. Gli interessi strategici russi e georgiani sono quindi divergenti, e l’affermazione di un diplomatico georgiano secondo cui “una politica indipendente, per noi, è inevitabilmente una politica antirussa”[20] è tutt’altro che priva di fondamenti.

Tutto ciò spiega, tra l’altro, il sostegno russo agli indipendentisti osseti e abcasi, tradottosi nel 2008 nell’intervento militare al loro fianco e nel riconoscimento dell’indipendenza dei due Paesi. La Georgia, d’altro canto, ha goduto sin da subito del sostegno dell’Occidente, che ha condannato in maniera praticamente unanime l’intervento russo. Per aiutare la Georgia, poi, nel 2012 gli Stati Uniti sono giunti a proporre la stipula di un accordo di libero scambio col Paese caucasico[21]. Non si tratta, chiaramente, di un sostegno disinteressato: se gli Stati Uniti puntano a tenere fuori la Russia dalla Transcaucasia e a separarla da Teheran, sostenendo la Georgia nelle sue iniziative e promettendole l’adesione alla NATO, la Russia, che vede questa prospettiva con il fumo negli occhi, foraggia Ossezia del Sud e Abchazia, consapevole che finché la situazione in queste regioni non sarà risolta la Georgia rimarrà fuori dall’Alleanza Atlantica. Lanciare accuse di ipocrisia è fin troppo facile, ma questo è il Caucaso, e, se si escludono quelle tra Russia e Armenia e tra Turchia e Azerbaigian, quasi tutte le principali alleanze nella regione sono di fatto matrimoni d’interesse.

Ma è proprio il fatto che al Cremlino non interessano tanto l’Ossezia o l’Abchazia in quanto tali, bensì avere alleati nella regione e tenere lontano l’Occidente, che rende possibile, anche se difficile, un compromesso. E, vista la variabilità delle alleanze nel Caucaso, non è impossibile che, per una Georgia filorussa e magari membro dell’Unione Doganale, la Russia sia disposta anche a sacrificare l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abchazia accettandone il ritorno nello Stato georgiano come Repubbliche Autonome. Già nei primi anni Novanta, dopotutto, la Russia è passata da una politica antigeorgiana all’intervento militare a sostegno dell’allora presidente Ševardnadze in cambio della concessione di alcune basi militari e dell’adesione della Georgia alla CSI[22]. D’altro canto anche Margvelašvili si è dichiarato disponibile a un compromesso con la Russia sulla questione, pur mantenendosi fedele alla linea del non riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia del Sud e Abchazia[23]. La Georgia, dopotutto, per quanto possa essere sostenuta dall’Occidente, difficilmente può rinunciare all’alleanza con Mosca. Inoltre, per quanto si è spesso detto (e non sempre a torto) che la Russia mirava – e mira – a mantenere debole Tbilisi, va anche detto che, per la Russia, una Georgia debole è persino più pericolosa di una Georgia forte e indipendente. Il Caucaso è pur sempre una regione tradizionalmente turbolenta, e subito a nord della Georgia vivono una serie di popolazioni spesso sul piede di guerra contro Mosca o contro i loro vicini. Nei primi anni Duemila la Valle del Pankisi, praticamente off-limits per l’esercito georgiano, offriva riparo a numerosi guerriglieri ceceni in ricognizione[24]. Ora sia in Cecenia sia nel Pankisi è stato riportato l’ordine, almeno all’apparenza, ma in altre Repubbliche, come il Cabardino-Balcaria, la situazione è peggiorata. Per quanto in Georgia la presenza islamica sia limitata, i rischi non mancano, e questi provengono soprattutto dalle infiltrazioni dei fondamentalisti e dei nazionalisti della parte nord del Caucaso: basti pensare che, nei primi anni Novanta, diversi guerriglieri ceceni, tra cui il defunto leader islamista Šamil Basaev, combattevano a fianco degli Abcazi[25]. Difficile dire se il nuovo presidente riuscirà a ricreare buoni rapporti con la Russia, ma di sicuro sul tema della sicurezza potrà trovare un terreno d’incontro con il Cremlino.




[4] La stragrande maggioranza della popolazione armena appartiene alla Chiesa Apostolica Armena, una delle quattro Chiese Ortodosse Orientali (le altre sono quelle siriaca, etiopica e copta). Pur essendoci notevoli differenze tra la Chiesa armena e la Chiesa Ortodossa propriamente detta, essendo la prima nata da uno scisma consumatosi definitivamente nel VI secolo d.C., la Russia ha svolto nei confronti del popolo armeno, a lungo suddito dell’Impero Ottomano, una funzione di protettore simile a quella esercitata nei confronti dei popoli slavi e ortodossi balcanici. Il celebre politologo statunitense Samuel Huntington, nella sua mappa delle civiltà, include l’Armenia nel novero dei Paesi ortodossi (cfr. S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, pp. 22-23).

[6] Il Nagorno-Karabach è una regione popolata prevalentemente da Armeni, ma assegnata da Stalin all’Azerbaigian per ragioni di diplomazia internazionale. Teatro di forti tensioni irredentiste nella fase finale dell’Unione Sovietica, che scatenarono forti pogrom antiarmeni a Baku e nelle altre città azere che ospitavano comunità armene, a seguito del crollo della stessa queste tensioni sfociarono in una guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione. La guerra è terminata nel 1994 con la vittoria di quest’ultima, che ha instaurato nel territorio la Repubblica del Nagorno-Karabach; la sua indipendenza, però, non è riconosciuta a livello internazionale e il territorio del Paese è tuttora rivendicato dall’Azerbaigian.

[17] S.P. Huntington, Op. cit., p. 209.

[20] L. Kleveman, The New Great Game, Atlantic Monthly Press, New York 2003, p. 32.

[22] S.P. Huntington, Op. cit., p. 238.

[24] L. Kleveman, Op. cit., pp. 34-35.

[25] Ivi, p. 34.

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